Francesco: un papa di transizione?
I
gesti e le parole di vescovo Francesco hanno varcato gli uffici curiali e le
coscienze degli uomini, hanno posto domande a chi non crede o è in ricerca e
fanno tremare i poteri forti della finanza e degli affari, per lungo tempo
nascosti dietro “le perdonanze” di santa madre Chiesa.
Due
anni di pontificato dove la parola profezia
ha di nuovo preso residenza nel lessico universale di una fede e di una Chiesa
distratte, soprattutto nel passaggio temporale tra Giovanni Paolo II e Benedetto
XVI, da scandali e ruberie, e da un vuoto di prospettive etiche e di senso che ha avvolto, come poche volte nella storia,
i suoi stessi pastori.
Una
rivoluzione, quella di Francesco. Eppure, oggi, dopo questo tempo in cui la
voce di Francesco è apparsa nitida e profetica per gran parte del popolo di Dio
e l’esortazione evangelica Evangelii
Gaudium l’atto del pontificato più intriso di significati e di prospettive evangeliche
anche nel lungo periodo, è lecito porsi una domanda: basterà Francesco a
risvegliare una Chiesa universale costretta a disegnare di nuovo i suoi confini
geopolitici spirituali e pastorali, presa in mezzo dalla tenaglia della
globalizzazione, della società liquida e da un pragmatismo post industriale che
predilige la velocità del cyberspazio alla lentezza e alla bellezza dei volti?
In
realtà il programma del pontificato c’è già, l’Evangelii Gaudium. È un’esortazione, non va dimenticato. Il papa,
qui, fa il vescovo: indica comportamenti pastorali, non agita lo scettro del Petrus
medievale. Ma è proprio il clero il primo ha essere indispettito rispetto alle
novità bergogliane. La paura di perdere il primato dello status ecclesiale è
duro a morire. Mentre la profezia di Francesco si immerge nella tenerezza e
nell’abbraccio solidale con ogni essere umano dimenticato, emarginato, povero.
È
una profezia dialogica che diventa vita vissuta. Non è parola scritta, non è
legge, non è dogma. Destruttura la Chiesa-istituzione e invita a raccogliere la
fiaccola del vangelo lungo le strade dell’umanità dolente e sognante buona
speranza.
Il
tratto solidale e pastorale di Pietro-Bergoglio distingue e differenzia di
molte le due Chiese dell’Europa e dell’America Latina, l’una a difesa della sua
teologia tommasea e l’altra alla ricerca di una strada che permetta
l’avvicinamento tra democrazia e cristianesimo.
Non
credo che Francesco possa fare molto di più, rispetto a quello che sta facendo.
Sta tentando di rendere più eticamente sostenibile lo Ior, e di questo gliene
va dato atto. Il percorso verso una piena trasparenza finanziaria da parte
della Santa Sede è un work in progress, ma c’è. Il progetto di riforma della
Curia, gridato a gran voce dalla maggior parte dei cardinali prima dell’ultimo
conclave, è un po’ rimasto prigioniero dei ritmi e delle burocrazie curiali. Ci
vorrà del tempo. La diplomazia, vanto da sempre della Santa Sede, sta conseguendo
risultati inaspettati: il ruolo che ha avuto personalmente Bergoglio nel
riavvicinamento tra Cuba e Stati Uniti è evidente. Nello stesso tempo, il tono
a volte poco diplomatico dello stesso Bergoglio, ha provocato qualche problema,
come nel caso genocidio armeno-Turchia.
Il
ricambio generazionale di vescovi e cardinali è un problema, invece, più
delicato e non esauribile con questo pontificato. Con la scelta dei nuovi
cardinali Francesco può decidere nel breve periodo, e lo si è visto nei due
Concistori svolti. Le scelte sono andate nella direzione di figure pastorali
dotate di forte spiritualità e intrise con le povertà del mondo, mentre la
burocrazia curiale, da sempre rigida sostenitrice del “manuale Cencelli”
all’interno delle mura leonine, è andata in debito di ossigeno.
Da
un calcolo approssimativo, ma vicino alla realtà, si potrebbe scommettere che a
Francesco basterebbero due altri Concistori per avere una maggioranza assoluta
di suo gradimento nel prossimo Conclave. Ma ciò non basta. Perché il problema
del ricambio dei vescovi non si esaurisce in un pontificato breve, ma ha
bisogno di tempi lunghi e di un apprendistato dell’Evangelii Gaudium che, allo stato attuale, non è semplice né
benvoluto.
La
profezia di Francesco si incarna nel suo non essere papa, ma vescovo. Pastore,
non re. È tutta qui la sua scommessa profetica. Il che, ovviamente, lascia
spiragli di manovra ai suoi avversari e detrattori.
È il
paradosso di Francesco. D’altronde, con Giovanni Paolo II, non sarebbe accaduto
che parte del clero potesse essere così recalcitrante alle novità del papa. Lui,
Wojtyla, aveva Ratzinger al suo fianco, braccio destro di un pontificato dove
vie di fughe, pastorali, teologiche e spirituali, non erano ammesse (se non per
movimenti ecclesiali che potevano contare su potere e risorse finanziarie).
Oggi, papa Francesco, ha il card. Müller alla Congregazione per la Dottrina
della Fede. Due caratteri, e due prospettive teologiche-pastorali, non
coincidenti.
Riuscirà,
allora, la rivoluzione di Francesco ha fare breccia nel corpo secolare della
Chiesa universale? È una storia da scrivere, certo. Però sono convinto che
questo sia un papato, e un papa, di transizione.
Ha
guadato il fiume. Ha dissotterrato la profezia dalla terra. Ha indicato la via.
Ci ha parlato di Gesù con la sua carità e la sua misericordia. Ha detto che i
preti debbano essere meno funzionari e più servitori del popolo di Dio.
Ad
altri spetterà il compito di completare questo tragitto. Un altro papa-vescovo
(un non europeo? Un asiatico, un africano?) magari, come accaduto in passato,
indicato dall’attuale pontefice.
Una
transizione che attraverserà una Chiesa, per forza di cose, in via di trasformazione.
In un mondo, invece, che avrà bisogno di una Chiesa e di religioni che incarnino
le ragioni della democrazia dei popoli e le loro domande esistenziali.
E
dove la parola profezia diventi
finalmente sorriso e abbraccio con tutta l’umanità.
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